Chiariamo subito: durante la quarantena da molti non è stato praticato lo smart working, piuttosto il telelavoro. Tra i principali vantaggi dello smart working ci sono flessibilità e organizzazione. Non è soltanto una questione di quanti giorni a settimana lavorare in ufficio: un progetto di smart working prevede un focus sugli obiettivi che dia adeguate garanzie sia al dipendente sia all’impresa. Rendere efficiente il lavoro a distanza, però, comporta molte sfide, tanto tecnologiche quanto organizzative: servono soluzioni adeguate per poter creare un digital workplace che sia realmente affidabile anche da remoto e un modello di change management innovativo e agile.
Lo smart working non è un fenomeno nato dopo il COVID-19: si tratta di una modalità di lavoro già molto utilizzata da tante imprese, che hanno accelerato l’implementazione di organizzazioni agili e flessibili per focalizzare l’operatività dei dipendenti sugli obiettivi. Lo smart working nella fase 2 ha però spinto questo modello lavorativo, in cui la presenza in sede diventa facoltativa: il dipendente può continuare a lavorare da qualunque luogo, con qualunque dispositivo e a qualsiasi ora del giorno.
Le regole dello smart working prevedono, infatti, un focus sugli obiettivi e sul coordinamento; il dipendente avrà poi la piena responsabilità degli obiettivi che sarà riuscito a raggiungere oppure no. Inoltre, soprattutto negli ultimi tempi, a causa della quarantena forzata, si ritiene ingiustamente che lo smart working escluda totalmente la presenza fisica del dipendente in azienda: la realtà è ben diversa e la flessibilità implica un paradigma differente dai cinque giorni in ufficio per 8 ore al giorno, ma senza estremizzare né rendere inutile la sede aziendale. Significa riorganizzare l’impresa e il lavoro dei dipendenti in modo intelligente.
I benefici di applicare politiche di lavoro agile non riguardano solo quanti giorni a settimana sfruttare lo smart working. Significa garantire ai dipendenti un migliore bilanciamento tra la vita privata e il lavoro. La mancanza di tempo per la vita privata è una delle cause di maggiore frustrazione: stabilendo degli obiettivi (settimanali, mensili o semestrali) le persone saranno motivate a perseguirli, perché non saranno vincolate alla presenza in ufficio (che di per sé non è una misura indicativa della qualità del lavoro; anzi, spesso le due cose vanno in direzioni opposte) e potranno effettivamente inserire in modo genuino il lavoro nelle proprie 24 ore.
Anche l’impresa, quindi, ottiene significativi vantaggi dallo smart working: una maggiore produttività e meno costi fissi; inoltre introdurre lo smart working spinge le aziende a rivalutare le tecnologie IT in essere. Lo smart working diventa anche, quindi, la leva per evolvere l’infrastruttura delle imprese in una chiave innovativa, che sposi le caratteristiche del lavoro agile e le moderne applicazioni software per ottimizzare i flussi operativi.
Lo smart working durante il COVID-19 non era smart working. È giusto chiarirlo perché la differenza con il telelavoro può apparire minima, ma è in realtà enorme. Il telelavoro, infatti, prevede che la postazione del dipendente venga traslata al di fuori della sede aziendale (per esempio: a casa sua). Per il resto, il lavoratore seguirà le stesse regole di prima, le stesse abitudini e gli stessi orari. Non c’è una vera flessibilità: l’unica discriminante è il luogo dove avviene il lavoro.
Una situazione che porta vantaggi, per esempio, per l’annullamento dei tempi e dei costi del trasferimento quotidiano verso l’azienda, ma non ha a che fare con la riorganizzazione del lavoro in chiave intelligente imposta dalle regole dello smart working. La flessibilità offre benefici per la produttività. Dover lavorare agli stessi orari, con quasi gli stessi vincoli di prima non contribuisce ad aumentare la produttività del dipendente e, di riflesso, dell’impresa.
Le regole dello smart working, quindi, sono chiare: svincolare il lavoro dalla sede aziendale e abilitarlo da qualunque luogo e da qualunque dispositivo. I risultati sono altrettanti evidenti, ma non è tutto semplice da implementare. L’adozione di modelli di lavoro agile, infatti, comporta una serie di modifiche pervasive sia al modo in cui l’impresa organizza il proprio lavoro sia alle tecnologie abilitanti che usa per proteggere la sicurezza dei dispositivi finali, per esempio.
Un progetto di smart working ben riuscito prevede che il collaboratore possa lavorare dove voglia e quando voglia, ma che lo faccia senza compromettere – da nessun punto di vista – le condizioni operative che sussistono in azienda sul fronte della sicurezza informatica, della protezione del dato e del livello di collaborazione con i suoi colleghi, specialmente quelli dello stesso team. Questa è senz’altro la sfida più grande: rispondere sia alle aspettative dei dipendenti sia ai bisogni dell’impresa.
Servono strumenti innovativi che permettano la gestione da remoto delle postazioni di lavoro, soluzioni di collaborazione che permettano di avere, in un’unica piattaforma, email, VoIP e gestione documentale e, altro esempio, tecnologie che permettano di accentrare la gestione dell’ambiente desktop.
Lo smart working non viene abilitato unicamente dall’integrazione di nuove tecnologie e dall’adozione di servizi gestiti innovativi: serve un change management pervasivo. Le aziende devono comprendere, infatti, come il lavoro agile impatterà l’azienda; come rivedere i flussi operativi in chiave digitale e come integrare soluzioni tecnologiche nuove e gestite da terze parti per assicurare risultati affidabili e una maggiore efficienza anche senza il controllo della presenza fisica in azienda. Il change management è il secondo tassello di un progetto di smart working ben riuscito.
Bisogna tenere in conto, inoltre, una rivalutazione delle prestazioni del dipendente: la sola presenza in ufficio non dice niente su come è stato svolto un dato lavoro né quante ore sono state necessarie. Al contrario, poter avere obiettivi chiari e parametri affidabili per misurare i raggiungimenti intermedi permette alle imprese di valutare con maggiore consapevolezza il lavoro dei dipendenti e anche di assumere decisioni migliori.
Il modello ADKAR è il riferimento quando si parla di change management. La sigla deriva da cinque parole inglesi, che rappresentano le altrettante fasi che deve vivere l’azienda per poter completare con successo il percorso di change management: Awareness, Desire, Knowledge, Ability e Reinforcement. Sono una serie di passaggi obbligati per trasformare la consapevolezza (Awareness) di dover effettuare un’evoluzione significativa nell’effettiva capacità di usare i nuovi strumenti (Ability) e nel sostegno al cambiamento sul lungo termine (Reinforcement). È fondamentale, infatti, che dopo l’entusiasmo iniziale, la nuova identità aziendale venga mantenuta e supportata attivamente.
Il change management è un obiettivo importante, ma non può avvenire da un giorno all’altro. Il modello ADKAR offre alle imprese una tabella di marcia da seguire che scandisce le varie evoluzioni: ciò permette alle imprese di creare il proprio percorso, organizzare le informazioni necessarie per comunicare a tutti i livelli (dal dipendente di grado più basilare fino al dirigente più anziano) i cambiamenti che saranno implementati e i vantaggi che ne seguiranno. Tra i benefici più evidenti, ci sono:
Il lavoro agile ha bisogno di un ambiente di lavoro digitale, flessibile e innovativo. Per tale ragione, le imprese devono dotarsi di soluzioni che abilitino questo scenario e offrano una serie di vantaggi trasversali. Tra le tecnologie che abilitano lo smart working ci sono:
Si tratta di soluzioni pensate per virtualizzare e digitalizzare i flussi operativi normalmente vissuti in azienda in modo che possano essere esperiti con gli stessi risultati anche da remoto. In particolare, la virtualizzazione desktop offre significativi vantaggi in termini di gestione accentrata della sicurezza informatica, perché svincola la manutenzione dell’hardware e del software (gli aggiornamenti di sistema, per esempio) dal dispositivo di ogni dipendente per un progetto di smart working che ruoti attorno a uno o più server.
La virtualizzazione degli applicativi permette di superare i limiti di un’applicazione obsoleta o non più supportata dal sistema operativo, mentre sistemi avanzati di videoconferenza e soluzioni di Unified Collaboration and Communication permettono di potenziare la collaborazione a distanza unificando mezzi di comunicazioni e messaggistica istantanea con le chiamate VoIP e la modifica contemporanea sui documenti, le presentazioni e i fogli di calcolo. Grazie al Device Deployment and Management, invece, le imprese possono coordinare l’installazione delle applicazioni sui dispositivi mobile e gestire al meglio le piattaforme in uso.
La virtualizzazione è una tecnologia centrale in un progetto di smart working. La virtualizzazione permette di estrarre l’ambiente desktop o le applicazioni dalle risorse locali (tipicamente il computer del dipendente) per renderle accessibili attraverso una connessione di rete, a prescindere dal dispositivo usato. Le applicazioni aziendali, quindi, sono sempre a disposizione, ma non vengono elaborate in locale: ciò offre benefici dal punto di vista della sicurezza e dell’esperienza d’uso.
Virtualizzazione desktop e virtualizzazione workspace sono due tecnologie simili, ma diverse nella portata. Nel primo caso, le imprese devono considerare la virtualizzazione dell’infrastruttura: l’ambiente desktop – che può essere univoco per ogni dipendente oppure condiviso – viene elaborato da uno o più server. Grazie alla virtualizzazione desktop, i dipendenti possono avere sempre accesso a un desktop personalizzato come se fosse in locale, mentre la sessione, in realtà, avviene da remoto e vi si può accedere usando qualunque dispositivo.
La virtualizzazione desktop è insomma un progetto più profondo rispetto alla virtualizzazione workspace. Quest’ultima può riguardare una o più applicazioni (come la suite Office di Microsoft) ed essere implementata direttamente sul computer dell’utente, fianco a fianco con altre applicazioni che, invece, vengono eseguite in locale.
La scelta del software di virtualizzazione è fondamentale. In primis, perché si tratta di uno strumento che le imprese dovranno usare per molti anni: sbagliare il software di virtualizzazione, quindi, può avere un impatto tangibile nel modo in cui lavora l’azienda minando le sue possibilità di crescita e scalabilità.
Ci sono alcuni fattori che vanno presi in considerazione:
Le imprese comunicano attraverso vari canali: telefono, email, sistemi di videoconferenza, una chat aziendale. Ognuno di questi servizi assolve a uno scopo, ma non si integra davvero con l’altro: ognuno è isolato e spesso ciascuno appartiene a un fornitore differente. Proprio nell’ottica di esaudire l’esigenza di una soluzione unica sono nati i servizi di Unified Communication and Collaboration: l’insieme degli strumenti con cui i dipendenti interagiscono tra loro in un’unica interfaccia, da un solo fornitore.
I benefici di questi servizi sono trasversali: gli utenti finali dovranno imparare a gestire una sola piattaforma, con ricadute positive sulla produttività e l’efficienza operativa; il reparto IT non deve inseguire molteplici fornitori e può focalizzare la gestione su un unico software; inoltre, le soluzioni di Unified Communication and Collaboration, proprio perché sono implementate da un solo fornitore, possono essere integrate con modelli “as a service”.
Un progetto di smart working ben riuscito ha bisogno che la rete di comunicazioni non venga meno; anzi, deve essere consolidata e le soluzioni di Unified Communication and Collaboration servono proprio a questo.
Le soluzioni di Unified Communication and Collaboration sono quindi fondamentali per la riuscita di un progetto di smart working. L’implementazione parte dalle specifiche esigenze del cliente: il numero di dipendenti coinvolti, il settore in cui opera l’azienda e gli obiettivi che si è prefissata con la riorganizzazione del lavoro, per esempio. Le soluzioni di Unified Communication and Collaboration non sono tutte uguali per ogni tipo di impresa: i migliori system integrator realizzano soluzioni su misura, dalla progettazione fino all’integrazione dei servizi di comunicazione con quelli di telefonia tradizionale.
Bisogna inoltre considerare che una nuova piattaforma non deve essere aliena nell’infrastruttura IT dell’azienda già presente; anzi, le modifiche all’infrastruttura preesistente devono essere minime, in modo che l’impresa possa avvantaggiarsi quanto prima della nuova soluzione. In molti casi, l’implementazione non richiede particolari lavori propedeutici.
Serve inoltre che l’impresa realizzi appieno quale ruolo svolgerà la piattaforma di Unified Communication and Collaboration nel nuovo assetto organizzativo nell’ottica di un pieno smart working: la naturale componente tecnologica, in questo senso, non deve offuscare quella strategica. Per ottenere questo risultato, le imprese possono contare sulla consulenza del partner specializzato per valutare come sfruttare la nuova soluzione affinché sposi i suoi obiettivi.
Se in un ambiente non agile la postazione di lavoro del dipendente è sempre la stessa, lo smart working cambia tutto: l’utente può lavorare con lo smartphone fornito dall’azienda oppure con il PC desktop di casa, usato anche da altri utenti. Ecco perché, per far aderire il progetto di smart working alle politiche interne, è fondamentale adottare sistemi di Device Deployment & Management, ossia sistemi che permettano alle imprese di gestire in modo dettagliato e accentrato tutti gli endpoint dell’utente.
Le soluzioni di Device Deployment & Management permettono, per esempio, di distribuire le applicazioni mobile in sicurezza. Un ambiente digitale e agile deve essere costantemente aggiornato: le soluzioni di Device Deployment & Management consentono di rilevare la compatibilità delle applicazioni, implementare l’infrastruttura più adatta e di ottimizzare la gestione delle varie piattaforme. Ciò consente un controllo evoluto e risultati superiori in termini di sicurezza informatica e monitoraggio degli applicativi.
Inoltre, permettono di automatizzare alcune task, in modo da liberare il reparto IT dalle operazioni ripetitive così che possa concentrarsi sui progetti più critici. Senza dimenticare, infine, che l’esperienza d’uso dell’utente ne esce migliorata.
Il dipendente può lavorare ovunque voglia: è una condizione essenziale delle regole dello smart working. Come può essere coniugata con la necessità di proteggere la sua privacy e, più in generale, assicurare la protezione dei dati personali? Se un lavoratore può connettersi da una rete Wi-Fi pubblica, i dati trasmessi potrebbero essere intercettati; come ridurre il controllo del personale senza mettere a rischio la rete aziendale?
La formazione del personale gioca un ruolo critico: le persone devono essere competenti sulle linee guida da usare per poter sì operare da qualunque luogo e con qualunque dispositivo, ma farlo con cognizione di causa e senza che l’esperienza possa provocare problemi all’impresa.
Inoltre, i notebook usati per il lavoro potrebbero anche essere usati, per esempio, dai figli o da altre persone per la navigazione sui social network o per giocare: è importante sfruttare sistemi di crittografia per isolare i file e le cartelle aziendali, affinché siano sempre protette.
Per far sì che smart working e privacy coesistano in modo funzionale e coerente, le imprese devono assicurare la protezione dei dispositivi. Qui entrano in campo i servizi gestiti e soluzioni tecnologie di Mobile Device Management, di costruzione di una rete protetta per mezzo di Virtual Private Network (VPN) e di accentramento della gestione della cybersecurity, per esempio tramite l’implementazione della virtualizzazione desktop.
Violare il GDPR, il Regolamento per la Protezione dei Dati Personali in vigore in Europa, con lo smart working è un rischio: inutile girarci intorno. Un dipendente poco accorto potrebbe, infatti, avere scarsa cura dei dati aziendali a cui accede e che porta con sé attraverso i vari dispositivi.
Come fare, allora, per tenere insieme il rispetto delle direttive del GDPR – la cui violazione può comportante ingenti sanzioni per le imprese – e lo smart working?
Valgono molte delle cose che sono state dette, più in generale, sul tema della privacy: la formazione del personale è centrale, affinché le best practice sul trasferimento dei dati siano assimilate. C’è, poi, tutto un fronte tecnologico che può assistere le aziende per fronteggiare a testa alta il tema del GDPR durante un progetto di smart working. Per esempio, affidarsi a servizi multilivello, che assicurano il pieno adeguamento al GDRP anche durante il passaggio a un’organizzazione basata sul lavoro agile. Il nodo della questione resta la reale comprensione, a tutti i livelli della gerarchia aziendale, delle direttive del GDPR e delle best practice in tema di protezione e trattamento del dato. Il fattore umano, quando si parla di possibili data breach, resta critico e va particolarmente tenuto sotto osservazione.