I 3 motivi per passare al Cloud

Categoria: Cloud
I 3 motivi per passare al Cloud

Nel 2018 il mercato del Cloud in Italia ha superato i 2,3 miliardi di euro, con un incremento del 19% rispetto al 2017. È quanto emerge dai dati dell’ottava edizione dell’Osservatorio Cloud Transformation promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano. La ricerca segmenta la tipologia di investimento, suddividendola in:

  • Utilizzo di servizi esterni di Public & Hybrid Cloud, ossia l’insieme dei servizi forniti da provider esterni e dagli “ibridi” tra provider pubblici e privati (1,24 miliardi di euro pari a +28%);
  • Virtual & Hosted Private Cloud, ovvero i servizi infrastrutturali residenti presso fornitori esterni caratterizzati da maggiore flessibilità in termini di personalizzazioni e maggiore isolamento (593 milioni di euro pari a +14%);
  • Datacenter Automation e convergenza (500 milioni di euro pari al +4%), vale a dire la modernizzazione delle infrastrutture on-premises.

Alla luce di questi numeri, la migrazione di sistemi di elaborazione, database storage, distribuzione di contenuti, applicazioni ecc. sembra ormai inarrestabile.

Vediamo i 3 principali motivi che la rendono conveniente.

 

 1. Carico di lavoro

Passare da un server dedicato a un’infrastruttura Cloud significa poter disporre di più risorse in tempo reale, senza dover implementare la dotazione hardware interna. Generalmente i Cloud provider forniscono sistemi multi-core che consentono di aumentare la potenza di calcolo in maniera illimitata con costi che, se fossero su componenti fisiche, sarebbero difficili da sostenere. La riprova è data dalla possibilità di affiancare al servizio Cloud un load balancer che bilancia il carico di lavoro e garantisce scalabilità non tanto a livello verticale, quanto a livello orizzontale, distribuendo cioè sui vari server a disposizione il peso delle richieste; e, in più, assicurando standard di affidabilità superiori derivanti da processi, come quello del fault-tolerance, che permettono di passare da un server a un altro in caso di indisponibilità di uno dei due.

 

2. Costi TCO vs ROI 

“Sì, ma quanto mi costa?”: potrebbe essere questa la domanda del CIO o dell’IT Manager. Le piattaforme Cloud solitamente prevedono un canone e un costo pay per use. Gli importi, vanno confrontati con i parametri classici TCO (Total Cost of Ownership) con cui si calcola la spesa per l’acquisto, l’installazione, la gestione, l’aggiornamento, la manutenzione e lo smaltimento della dotazione IT aziendale. L’implementazione di servizi Cloud, invece, si misura soprattutto con il ROI (Return On Investment), attraverso il quale il capitale investito viene “agganciato” agli obiettivi di business, a differenza di quanto avviene con il TCO che si limita a prevedere la spesa in tecnologia a prescindere dal suo utilizzo. Attenzione, però, a non incappare in meccanismi di lock-in che rendono oneroso, una volta scelta una certa opzione, tornare sui propri passi anche di fronte a un ROI definito. Qui entra in campo la necessità di individuare un’azienda che svolga servizi di consulenza in grado di mostrare chiaramente caratteristiche e differenze tra SaaS, IaaS e PaaS, così come soluzioni alternative di Public, Private o Hybrid Cloud in linea con i fabbisogni dell’azienda.

3. Disaster Recovery e Business Continuity

Il Cloud computing sovverte l’idea diffusa sulla sicurezza IT, fondata sull’assunto (errato) che è più facile difendere i propri dati e ripristinare i sistemi se entrambi si trovano in un luogo più vicino. Il Cloud offre servizi di backup, storage e server replicando sulla nuvola (ridondanza) i dati dei propri datacenter on-premise. Il livello di ridondanza generalmente è collegato alla qualità di componenti quali rete, circuiti elettrici, impianti di raffreddamento ecc. È ripartito sulla base di una classificazione (Tier 1-4) che assicura una disponibilità dei server con una media annua crescente, dal primo al quarto, che negli standard più alti prevede un’interruzione massima di poco più di 26 minuti in un anno. In queste condizioni, le strategie di Disaster Recovery risultano più economiche, perchè non necessitano degli sforzi logistici necessari allo spostamento dei datacenter in seguito a un evento disastroso e garantiscono i profili di compliance oggi richiesti dal GDPR in materia di tutela di privacy e dati personali. Infine, sul fronte della Business Continuity, i downtime e le eventuali interruzioni non influiscono sull’operatività quotidiana proprio perché non dipendono dai tempi di ripristino delle macchine in house.

I-trend-della-Business-Continuity-nel-2019

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